PROGETTO PER UN'OSPEDALE A SINJAR

ASSOCIAZIONE VERSO IL KURDISTAN ODV

Obiettivi

L'obiettivo specico del presente progetto è quello di contribuire all'incrementodelle garanzie di accesso ai servizi sanitari di base e al miglioramento delll'assistenza socio-sanitaria per le popolazioni del distretto del Sinjar.
L'obiettivo generale è quello di contribuire al miglioramento delle condizioni socio-sanitarie dell'Iraq del nord.


Contesto

La regione di Sinjar si trova nell'Iraq nord occidentale, al conne con la Siria. Si tratta di una zona caratterizzata da un clima arido, con scarse precipitazioni e un paesaggio sterile, color ocra, stepposo.
Situata nel governatorato di Ninawa, è attraversata dalla catena montuosa del Gebel Sinjar, che si eleva al di sopra della vasta pianura della Jazira, tra i umi Tigri ed Eufrate, il cui punto più alto supera i 1.400 metri.

Fino a pochi anni fa, vi abitavano circa 420 mila persone di diverse etnie e credi religiosi, oggi, su queste montagne, vi hanno fatto ritorno solo un terzo circa degli sfollati dall'occupazione dell'ISIS.
La popolazione appartiene in maggioranza all'etnia kurda e pratica lo yadizismo, una religione monoteista molto antica, che si richiama ai ritmi della natura, al rispetto delle piante e degli animali ed è considerata "eretica" dagli islamisti.
Essi sono stati perseguitati per millenni, la loro cultura e i fondamenti del loro credo sono stati tramandati quasi del tutto oralmente: sono 74 i massacri subitidagli yezidi nel corso della loro storia!

L'economia locale si basa principalmente sull'agricoltura: orzo, fichi, grano, tabacco.Til Ezer, in arabo Al-Qahtaniyya, dove vogliamo realizzare il progetto del centroospedaliero, è un villaggio che si trova a 26 chilometri da Sinjar City.
L'area è strutturalmente carente di strutture per l'assistenza medica: esistono solo altre due ospedali nel distretto, uno a Sinjar City e un'altro a Snuny, a 70 chilometri di distanza.

Sinjar è stata teatro di scontri violentissimi tra Daesh e le minoranze etniche presenti nell'area, in particolare quella dei kurdi yazidi. Gli uomini e gli anziani sono stati trucidati in massa, mentre donne e bambine sono state ridotte a schiave del sesso e vendute sui mercati di Mosul e Raqqa per cifre tra i 5 e i 20 dollari, mentre i ragazzini sono stati arruolati e indottrinati dai miliziani islamisticome bambini soldato. L'ONU e la UE hanno ufficialmente riconosciuto che ISIS ha commesso un genocidio contro gli yazidi, oltre a crimini di guerra e contro l'umanità.
Oltre alla catastrofe umanitaria, l'ISIS, durante la sua occupazione della zona, ha distrutto l'80% delle infrastrutture pubbliche e il 70% delle case civili nella città di Sinjar e zone limitrofe.

La città, dopo diversi tentativi, fu riconquistata dai peshmerga e dal Pkk il 13 novembre 2015 e, in seguito a ciò, furono istituite le Unità di resistenza del Sinjar (Ybs e Yis femminili).
In Sinjar, sono state rinvenute numerose fosse comuni con le teste forate dai proiettili sparati alla nuca delle vittime che sono lì a dimostrare la furia genocida dello Stato islamico.
Nel 2018, un'attivista yazida, Nadia Murad, fu insignita del Premio Nobel per la pace, dopo essere stata rapita e resa schiava sessuale dei miliziani dell'ISIS.

Ma il mondo sembra essersi scodato velocemente dei massacri e delle sofferenze di Sinjar.
Oggi, nel silenzio dei media, si teme una nuova guerra, questa volta ad opera dell'esercito turco, in funzione antikurda: non a caso sono ricorrenti i bombardamenti con droni a Sinjar, come nel vicino campo di Makhmur e sui monti Qandil.


Descrizione delle Attività principali

  1. Pianificazione dei lavori di ristrutturazione:
    la struttura che ospiterà l'ospedale è già costruita nelle sue parti essenziali, ma mancano alcuni lavori di adeguamento dei locali. Le principali azioni da apportare alla struttura sono: intonacatura di 400 m2 afferenti a 10 stanze, piastrellamento di 4 locali per un totale di 120 m2, posa di cavi elettrici e relativa messa in funzione, installazione di 10 porte con telaio, installazione di 23 finestre con telaio e installazione di 10 macchine per il condizionamento degli impianti. I materiali per la ristrutturazione sono di facile reperimento in loco e verrà elaborato un piano dei lavori e relativo programma dal Comitato esecutivo di questa parte del progetto, composto da Arci Firenze, da UIKI Onlus e da Sinjar Humanity Citizens NGO.

  2. Esecuzione dei lavori di ristrutturazione:
    una volta elaborato il Piano dei lavori, si darà avvio all'esecuzione delle opere di cantiere. La maggior parte dei lavori verrà fatta con il contributo volontario di forza lavoro da parte della comunità yazida. Sarà di fondamentale importanza il contributo volontario e comunitario al progetto, sia dal punto di vista di sostenibilità progettuale sia da quello dell'appropriazione locale del progetto e del risultato finale. Si stima che la presente attività durerà circa quattro mesi.

  3. Reperimento e pianificazione dell'acquisto dell'equipaggiamento medico per l'ospedale:
    il Comitato esecutivo dedicherà particolare attenzione alla fase di ricerca e definizione della strumentazione ed equipaggiamento medico del nuovo ospedale. Il reperimento della strumentazione richiederà un tempo di almeno quattro mesi perché si dovrà cercare del materiale con un costo adeguato ai limiti di spesa e con possibilità di essere riparato in loco in caso di danneggiamento. In particolare, prevediamo che la strumentazione necessaria includerà almeno: serbatoi d'acqua (4), depuratori idrici (3) computer (2), stampanti (1), frigorifero (1) freezer (1), generatore elettrico (1) e riparo per il generatore (1), sedie a rotelle (2), lettini mobili (2), letti di degenza (35), termometri medici (4), concentratori d'ossigeno (2), maschere per l'ossigeno (70), ossimetri (5), sfigmomanometro (10), monitor multiparametrici ospedalieri (3), ecografo (1).

  4. Acquisto e messa in opera dell'equipaggiamento medico:
    con tutte le aziende fornitrici dei materiali, firmeremo degli accordi che ci garantiranno la riparazione o la sostituzione delle apparecchiature danneggiate, per almeno tre anni. Terminata questa attività e con i macchinari e le strumentazioni in funzione, avremo la piena operatività della nuova struttura ospedaliera a Til Ezer. I patner locali hanno la disponibilità di due medici di medicina generale, un chirurgo e cinque infermieri per formare lo staff medico dell'ospedale.


Budget

Il progetto per "Un'ospedale attrezzato a Sinjar" ha un costo complessivo di € 95.996, di cui € 44.996 (struttura ospedaliera e attrezzature base) ed € 51.000 (strumentazione e farmaci). Per quanto riguarda quest'ultima parte del progetto, se ne fanno carico: Associazione Verso il Kurdistan Odv e Associazione Fonti di Pace.

Sintesi del badget per quanto riguarda la struttura, per un totale di € 44.996, così suddivisi:

Voce Totale
Personale Locale 600,00 €
Ristrutturazione 18.830,00 €
Attrezzature 25.566,00 €


Reportage

Sul monte Sinjiar le famiglie ezide sono arrivate a piedi per lasciarsi alle spalle la ferocia dello Stato islamico, ancora visibile tra le rovine, e costruire un modello di società condivisa, ecologica e matriarcale. Alla ricerca di un riconoscimento ufficiale.

di Chiara Cruciati
Il Manifesto, 01.06.2021 aggiornato il 01.06.2021, 2:37

La casa di un solo piano ha forme arrotondate e color crema. Fuori il giardino è ricoperto di sterpaglie. Due finestre sono murate. Appena si entra, appare la porta di una cella. Nella prima stanza l’attenzione è attirata da un buco sul muro. «L’HA APERTO L’ISIS, durante i combattimenti, per scappare senza farsi vedere dalle forze curde», ci dicono. All’interno ci sono sei stanze, per terra bottiglie d’acqua vuote, scarpe da donne impolverate, brandelli di vestiti, cucchiaini di plastica.

Sulla parete di una camera senza finestre è stata disegnata una freccia rossa: «Così i miliziani islamisti indicavano la direzione della Mecca». Questa casa, nel villaggio di Tilezer nella piana di Ninive, era una prigione per le donne ezide schiavizzate dall’Isis durante l’occupazione della regione di Shengal (Sinjar in arabo). «È rimasta nelle mani dell’Isis fino al 29 maggio 2017 – ci racconta Faris Harbo, responsabile della diplomazia dell’amministrazione dell’autonomia di Shengal – Quando le forze di autodifesa ezida Ybs e le milizie sciite sono arrivate, gli islamisti sono scappati senza combattere. Sono entrato in quella casa. C’erano i segni di quello che era successo lì dentro. Ma nessuna donna. Non ce n’era più nessuna».

IN QUELLE SEI STANZE erano state rese schiave dopo il massacro del 3 agosto 2014, almeno 10mila uccisi. Quel giorno in poche ore gli islamisti hanno occupato questa regione nel nord-ovest dell’Iraq, togliendola al molle controllo di peshmerga ed esercito iracheno.

I soldati di Erbil e di Baghdad si sono ritirati senza combattere mentre lo Stato islamico proseguiva nella sua avanzata irachena, appena due mesi dopo la presa (in 48 ore) di Mosul, trasformata in poche settimane nella seconda capitale del «califfato» insieme alla siriana Raqqa. I 500mila ezidi di Shengal hanno tentato di difendersi, con le poche armi e munizioni a disposizione: «Le armi migliori, quelle arrivate dalla Germania, sono state convogliate su Erbil. A noi hanno lasciato i fucili degli anni Settanta», dice un ezida ex membro del settimo battaglione dei peshmerga. Shengal è caduta in sette, otto ore. Come il villaggio di Girzerik: gli islamisti hanno ucciso gli uomini, rapito le donne, seppellito 74 persone in una fossa comune di fronte a una bella casa di due piani. Sopra le montagnole di terra hanno preso il sopravvento ciuffi di cardi. Nessuno ha mai riesumato quei corpi: la zona è piena di mine, eredità dell’Isis in fuga, e le richieste di intervento alle autorità di Baghdad sono ancora senza risposta.

INTORNO C’È UN VILLAGGIO fantasma. L’intera popolazione è scomparsa, uccisa o fuggita. Per anni Girzerik è stato interamente in mano allo Stato islamico , fino alla liberazione di Shengal City nel novembre 2015 e del resto delle comunità nei mesi successivi. Negozi sventrati, erbacce che si sono fatte strada nel cemento, sui muri i segni della battaglia tra islamisti e le unità di autodifesa del Rojava, Ypg e Ypj.

E POI IMMONDIZIA dentro le case, sedie rotte, un frigorifero spento, saracinesche divelte. Il panorama è spiazzante, strade di cemento assolate senza anima viva. Un orizzonte diverso ma uguale a quello della città vecchia di Shengal City. Lì sono le macerie a narrare la guerra, gli scontri strada per strada tra islamisti e curdi e i bombardamenti americani, lanciati da Obama proprio nell’agosto 2014, quando il mondo scoprì la popolazione ezidi con la sua fuga sul monte Sinjar, senza cibo, acqua né ripari.

LE CASE SONO SVUOTATE, accartocciate su se stesse, pezzi di ferro liberati dal cemento puntano in ogni direzione. Nessuna ricostruzione in vista, mancano i soldi sì ma i piani sono comunque altri, spiega il co-presidente dell’Assemblea del popolo di Shengal, Haso Hibraim: «Non vogliamo ricostruire, vogliamo che quelle macerie restino dove sono a riprova del massacro subito dal nostro popolo».

Lassù, sul monte Sinjar, con temperature di 45 gradi, con in braccio solo i figli, le famiglie ezide sono arrivate a piedi per lasciarsi alle spalle la ferocia dello Stato islamico. Sono saliti in montagna, per giorni senza cibo né riparo, finché le Ypg e le Ypj arrivate dalla vicina Rojava, insieme a combattenti del Pkk, sono riuscite ad aprire un corridoio umanitario verso la Siria del Nord e il Kurdistan iracheno.

DI QUEGLI SFOLLATI, la metà non sono ancora tornati: 250mila si dividono tra i campi profughi, troppo spaventati per tornare o senza una porta di casa da riaprire, e tra la diaspora in Germania. Moltissime donne non sono ancora state trovate, almeno 1.117 delle 5mila rapite nell’agosto 2014 e rese schiave, vendute al mercato di Mosul, passate di mano in mano, stuprate innumerevoli volte.

Sul monte però è successo anche altro. La comunità ezidi si è ricomposta e ha iniziato a lavorare sul proprio futuro. L’influenza della teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan e del confederalismo democratico del Rojava, penetrati e assorbiti insieme alla controffensiva contro l’Isis, è diventata un modello possibile.

È così nata l’autonomia di Shengal, regione storicamente contesa dai pesi massimi e anche da quelli minimi regionali, dalla Turchia e i suoi sogni di gloria pan-turchi (non a caso qui i caccia di Ankara hanno sganciato bombe dopo la cacciata dell’Isis) al governo centrale di Baghdad fino a quello regionale del Kurdistan iracheno.

LA BATTAGLIA CONTRO SHENGAL si è data nuovi mezzi lo scorso 9 ottobre con un accordo bilaterale (con la supervisione turca) tra Erbil e Baghdad e che ha escluso l’autonomia ezida: alla base sta il disarmo delle forze di autodifesa maschili e femminili, le Ybs e le Yjs, ma anche la nomina di un nuovo sindaco (quello «ufficiale» è in esilio a Duhok) e vaghi piani di ricostruzione. Tutto in mano a Iraq e Kurdistan iracheno. «Sulla nostra testa pesa il mancato riconoscimento del governo autonomo – spiega Leyla Kasim, la co-presidente dell’amministrazione – Gli altri governi vogliono tornare qui come se nel frattempo non ci fosse stato alcun massacro e come se non fossero fuggiti invece di difenderci. Non ci hanno coinvolto nel loro accordo. La nostra richiesta è chiara: vogliamo uno status ufficiale per Shengal».

Nella sala al secondo piano dell’amministrazione, a poca distanza dalle macerie della città vecchia, la co-presidente ci accoglie insieme ai responsabili, uomini e donne, di alcuni dei comitati creati per la gestione dei vari aspetti della vita politica e sociale ezida: i comitati ai giovani, alla cultura, alla salute, alla scuola. «Alla base della nostra autogestione c’è l’Assemblea del popolo creata subito dopo il massacro. L’amministrazione è stata invece creata nel 2017. L’obiettivo è prendersi cura della nostra società, difenderla da altri potenziali massacri e ascoltare le sue richieste».

Il sistema è molto simile a quello del vicino Rojava. «L’amministrazione si riunisce ogni mese per affrontare i temi e le priorità individuate dall’Assemblea del popolo», continua Kasim. «Sulle montagne abbiamo seminato quello che vedete oggi – aggiunge Masad, responsabile del comitato alla cultura – Abbiamo creato i primi gruppi di formazione e le forze di autodifesa. Oggi dobbiamo tutelare quel sistema». Che in qualche modo, ci spiegano nella grande sala circolare bianca e viola dove si riunisce l’Assemblea, riprende caratteristiche ataviche della comunità ezida: la condivisione e la cooperazione, la messa in comune dei mezzi, soprattutto in agricoltura, l’ecologia, i riflessi di un antico «matriarcato».

SI OPERA COME UNA PIRAMIDE. Alla base stanno le assemblee (tutte con due co-presidenti, una donna e un uomo) dei quartieri e quelle dei villaggi che nominano rappresentanti all’Assemblea del popolo. Sono 73 membri, uno per ogni massacro subito nella storia dagli ezidi. Così nascono le leggi interne, si ascoltano le esigenze e si cerca una soluzione.

Intanto sul monte Sinjar, il rifugio di ieri e l’amico di oggi, tra i terrazzamenti agricoli e le tende che ancora ospitano migliaia di sfollati, riposano i corpi dei martiri. Nel cimitero, ben curato, file di tombe bianche danno un nome a chi è morto per liberare Shengal ma anche le città irachene e della vicina Rojava. Ci sono le date di nascita e di morte, il luogo in cui sono caduti. Alcune lapidi sono avvolte in una kefiah. Un piccolo gruppo di anziani, membri dell’associazione dei familiari dei martiri, sintetizza il dolore: «Non vogliamo che tutto quello che è nato dal sangue e il sacrificio, l’autonomia, l’Assemblea del popolo, l’autodifesa, svanisca», dice la madre di un giovane ucciso a Serekaniye. Un bambino si abbraccia al nonno. Lui ha perso il suo papà.